La nostra condizione naturale è il flusso
Come costruire un'attitudine alla mobilità professionale
Lavorare lavorare, preferisco il rumore del mare
Quando sento la frase il mio lavoro non mi definisce, sono fondamentalmente d’accordo: a maggior ragione se constato che moltə lavoratorə accettano loro malgrado un mansionario o delle condizioni che non sono frutto di una libera scelta o di una contrattazione paritetica.
Sono molto più scettica dinanzi all’affermazione il lavoro è solo un lavoro: non mi pare possibile mantenere un atteggiamento neutrale nei confronti di un’attività alla quale devolviamo oltre un terzo della giornata per metà della vita. Questa modalità da pilota automatico mi sembra una forma di dissociazione che, sul lungo periodo, non penso faccia bene allə lavoratorə né alle persone che lə circondano né tantomeno alla società in generale. La newsletter di oggi, che è sostenuta da Unlavoropermamma, parla della cornice di senso che ognuno può costruire e ricostruire attorno al proprio ruolo professionale.
La mobilità professionale
Nel lontano 2004, presso l’Indiana University of Pennsylvania, seguii un corso chiamato BTST321 ovvero Business and Interpersonal Communication. Era obbligatorio per tutti gli studenti dell’area economica e insegnava a scrivere curriculum e cover letter, a presentarsi ai colloqui e condurre una conversazione formale1 e professionale. Questo corso, l’ho capito in seguito, non era funzionale a trovare lavoro una volta laureati: per quello c’era un ufficio di job placement, peraltro presente anche in molte università e business school italiane. La sua finalità era educare al cambio di lavoro: negli Stati Uniti la mobilità professionale è la norma e si è quindi guadagnata la dignità di materia di studio.
Le cose cambiano, Dawson, evolvono
C’è un test chiamato “Ancore di carriera” messo a punto da due professori del M.I.T. che ho svolto nel 2019. Il suo risultato mi ha dato la perfetta rappresentazione di com’era mutato il mio set di valori legati al lavoro rispetto a pochi anni prima: il che era normale, perché avevo accumulato relazioni ed esperienze (tra cui una di 3,5 kg uscita direttamente dai miei lombi). Se io non ero più la stessa, come poteva il mio lavoro (ricordo: un terzo delle mie giornate) rimanere uguale?
Non ha senso dedicarsi a una to-do list (iscriversi a corsi, parlare col commercialisti, fiondarsi in ufficio HR, fare domanda per un finanziamento o qualsiasi altra azione venga un mente) senza prima aver accettato l’idea che la naturale condizione in cui viviamo è il flusso.
Sto forse inneggiando a un mercato del lavoro deregolato al limite del selvaggio? No, perdio, no.
Dico solo che nessunə di noi è la stessa persona di 10, 20 o 30 anni fa: l’atto di cambiare lavoro o carriera -se spontaneo- è parte del processo di ridiscussione delle priorità, ma pochə lavoratorə possiedono gli strumenti per ascoltare e indagare il proprio desiderio di cambiamento. Il detonatore di questo desiderio, spesso è un altro cambiamento radicale: matrimoni, figlə, separazioni, malattie, per dirne alcuni, che spingono lə lavoratorə a farsi domande e intraprendere delle azioni. Tuttavia, è difficile ripensarsi professionalmente se ci si trova in una fase della vita in cui tempo e attenzione sono già assorbiti dal carico mentale o dalla cura.
Io, che pure presi A nel corso BTST321, per capirlo ci ho messo un sacco di tempo e frustrazione: non cresco di posizione!!! non mi valorizzano né mi pagano abbastanza!!! devo rendere conto del mio operato a un coglione!!! una tizia che manco è il mio capo mi fa soft mobbing e firma le email con il mio job title2 !!!
Ci ho messo 5 anni a distillare la verità: il mondo azienda non faceva più al caso mio. 5 anni per lasciar andare l’idea che avevo di me (cioè una potenzialmente bravissima manager purtroppo incompresa) e convincermi che sarei riuscita ad acquisire quelle competenze organizzative, emotive e contabili per essere una freelance. 5 anni per aprire una partita IVA e darmi il permesso di essere mobile.
Sì, in certe cose sono molto lenta.
Però ho 3 buone notizie!
la mobilità può essere praticata a molti livelli e la libera professione è solo il più radicale: ruolo, inquadramento, azienda, dipartimento, retribuzione, compensazione, orari, ritmi…
l’attitudine alla mobilità (così come quella al rischio!) può essere appresa: per quanto il mercato sia scoraggiante, i margini di manovra per trovare un nuovo lavoro o rendere quello attuale più simile ai nostri desideri esistono.
non dovete vivere tutto malissimo come io mi pregio di fare dal 1982: esistono risorse, percorsi e figure professionali capaci di traghettare lə lavoratorə da una condizione a un’altra.
Unlavoropermamma è un servizio nato per guidare le lavoratrici che si trovano in uno dei momenti più trasformativi della vita: la maternità. Da allora, offre una rosa di percorsi formativi per ripensare la propria carriera quando si presenta il bisogno di cambiare, qualunque cosa ciò significhi:
mettere a fuoco desideri e prospettive
presentarsi al meglio tramite cv e cover letter
ricercare attivamente un nuovo lavoro, anche mediante LinkedIn
come affrontare selezioni e colloqui
promuoversi come freelance o avviarsi a diventarlo
Se ti piace leggere di lavoro…
Sono stata recentemente intervistata da Arianna Bordi della redazione di Pazienti.it a proposito del mio passaggio da dipendente a freelance. Riguardando l’intervista, ho ritrovato molti dei punti toccati oggi (a riprova del fatto che sì, penso davvero ciò che ho detto e scritto!)
Il romanzo Supersaurio edito da Blackie Edizioni è la storia tragicomica della managerizzazione di Meryem, anarchica e riottosa stagista presso una insegna della GDO. È facile immedesimarsi nell’insofferenza generazionale di Meryem, che fa molto ridere e un po’ arrabbiare: vi lascio un aneddoto, quello di Excel, che io ho vissuto in modo identico in 3 occasioni e 3 lavori diversi.
Non hai niente sotto controllo, vorrei dirgli. Non sai neanche come si stampa un documento. Sei un inetto funzionale. Io ti ricordo i compleanni di tua figlia e di tuo marito. Io vado a prendere il tuo gatto dal veterinario. Io conosco le tue allergie. Prendi 5 volte quello che prendo io e non sai trasformare un Excel di merda in un PDF. Quando ho fatto il colloquio per entrare qui ho mentito dicendo che sapevo usare Excel e da allora sto imparando grazie ai tutorial di signori indios su Youtube. Non hai niente sotto controllo, vorrei urlargli, ma l’unica cosa che faccio è dedicargli un cenno con il pollice della mano destra verso l’alto. Tutto ok. E torno al mio posto.
Buona settimana a tuttə, non dimenticatevi di fluire come il fiume di Eraclito
Chi è Taryn di Ventura
Founder di Unlavoropermamma, ha un passato da manager in multinazionali e un presente da freelance: lo spartiacque tra i due ruoli è la nascita di sua figlia, in seguito alla quale ha deciso di dedicarsi alla formazione e alla consulenza in ambito professionale.
La community di Unlavoropermamma è costituita da donne, in prevalenza con figlə, desiderose di modellare un percorso di carriera -da dipendente o da freelance- attorno alle proprie esigenze. Potresti avere letto i suoi interventi su Donna Moderna. Sta molto su Instagram, ma LinkedIn è il suo social preferito.
In tutti i luoghi e tutti i laghi
Vorrei essere un tipo misterioso, conturbante e sfuggente, ma la verità è che mi trovi in 3 secondi e ovunque: Sito - Instagram - Facebook - Twitter - LinkedIn - Telegram
lo studenti medio di un college americano chiamerebbe dude pure il ministro della difesa, in inglese non si dà del lei, insomma le conversazioni formali non esistono quasi
true story
Come mi piacciono queste newsletter su lavoro&finanza ❤️
Una cosa che ho notato, almeno nelle persone attorno a me, è che quest'attitudine a vedere il lavoro come un flusso è almeno in parte il risultato di un imprinting iniziale. Ho lavorato in 3-4 aziende diverse, in Italia prima e in Germania poi, e conosco colleghi di nazionalità diverse, ma tutti ugualmente terrorizzati all'idea di cambiare lavoro, perché la loro prima esperienza (nell'azienda in cui si trovano tuttora) è stata così positiva, almeno inizialmente, da scoraggiarli dall'idea di uscire da quel nido (spesso ormai divenuto tossico). Per me, la mia prima esperienza corporate è stata in un'azienda che faceva cose illegali (tipo segnare giorni di ferie inesistenti in maniera da pagare meno soldi, o chiedere la ragione del perché stessimo chiedendo delle ferie), per cui fin da subito mi è stato chiaro che da un'azienda si fugge non appena si inizia a star male (nei limiti del possibile).